Saper fare
Oggi che i livelli di scolarizzazione sono sempre più alti, che il “sapere”, cioè la conoscenza, l’informazione sono più facilmente raggiungibili, forse rischiamo di dimenticarci il valore del “saper fare”: quella capacità tecnico-specialistica (dove per “tecnica” si intende la parte di tecnicalità di ogni lavoro) su cui si basava il lavoro della scorsa generazione. Fino a pochi decenni fa era possibile far crescere la propria competenza in percorsi interni ed esterni all’azienda e, su questo strato solido, appoggiare esperienza diretta e concreta che portava le persone a diventare “esperte” di qualcosa (del proprio mestiere, di una determinata metodologia o tecnologia) e per questo motivo considerate “capaci”. La competenza dava quindi l’opportunità di utilizzare le abilità di problem solving in modo disinvolto basando la sperimentazione di nuove soluzioni su modelli logici appresi prima e ri-modellizzati ad hoc poi.
Oggi le competenze necessarie per sopravvivere nel mondo del lavoro si evolvono ad una velocità impensabile fino a pochi anni fa e a ciascuno, a tutti i livelli, viene richiesto uno sforzo continuo per “restare al passo”. Ma questa corsa alla conoscenza, ci fa perdere di profondità: sappiamo molte cose, la maggior parte delle quali solo superficialmente.
Paradossalmente è proprio la disponibilità di informazioni che rischia di danneggiare la nostra capacità di pensare: quasi tutto è già pronto e disponibile e questo inibisce il pensiero e la modellizzazione personale.
Il vero risultato? Una diffusa incompetenza.
Non conosciamo più a fondo le logiche reali della risoluzione dei problemi: non avendo sperimentato, o non spendendosi più nel vero “come si fa”, quello più operativo (dal fare una divisione senza calcolatrice a leggere una cartina per cercare la strada, dal fare la besciamella a calcolare il cedolino paga di un dipendente) rischiamo di essere in balìa di quello che ci viene proposto dall’esterno.
Il problema non è tanto avere sempre la/e soluzione/i già pronta/e (cosa impossibile oggi, come ieri) ma saper analizzare/osservare la questione utilizzando diversi frame di riferimento per cercare la strada più funzionale.
La conoscenza profonda del proprio “mestiere” non è un inibitore della flessibilità, come a volte sento sostenere. Al contrario. È la base che ci consente di lavorare con maggiore sicurezza e consapevolezza sia su campi noti che su campi nuovi.
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